Solitamente i pittori non scrivono di se stessi e del loro lavoro, ma, quando accade, rivelano elementi essenziali alla comprensione della loro arte.
Per restare nel nostro tempo, esemplari gli appunti di Fausto Melotti, la scrittura di Ennio Morlotti, lirica e colla, spasimante nell’individuare i movimenti più segreti, organici della sua pittura.
È il caso, anche, di Mario Raciti, un autore appartato, coerente, devoto del bianco e del silenzio, che distilla parole con lo stesso rigore, con la medesima intensità, con i quali inscrive segni e affida colori ai fogli e alle tele.
Ogni parola, un dato, un’idea, un suggerimento, il nucleo di una crescita, la cellula di una struttura che diviene mentre si cerca, oltre le convenzioni del tempo e dello spazio.
L’illuminazione può scattare proprio dalla tentazione dei contrari, come del resto propongono gli stessi titoli, precisi e aperti lungo il percorso delle ricerche e sperimentazioni di Mario Raciti, uomo di legge (ricorda la biografia) con la vocazione a smentire le leggi più dichiarate e professate.
Dunque: La visione e l’invisibile, Presenza assenza e L’immagine primigenia, che indica la lucida ossessione dell’artista milanese nel recuperare le protoforme, non per una spietata archeologia, ma per una progettazione dell’altro e dell’altrove.
Nel catalogo dell’antologica, opere dal 1960 al 1990, introdotte da Stefano Crespi, ecco, dunque, alcune epigrafi dello stesso Raciti: “Come una pittura ultima”; “Luce che non c’è”; “Di là, dove erano confluite tutte le immagini, ne discendevano in fantasmi”; “Mito: nell’eco dei sogni primordiali, oggi, per ritrovarci”; “Il luogo irrapresentabile, il buco nero della pittura” (che è anche l’insegna di un’altra mostra di Raciti, a Milano, studio Reggiani).
Sono proposizioni da meditare per capire le ragioni più intime di Raciti, si avverte un movimento fitto, affinato, ai confini dell’ineffabile; tracce, palpiti, fruscii, segni (il passero solitario che si avventura sulla pagina innevata). Emergono forme paghe di se stesse, paesaggi interni, tutti da analizzare.
L’autore accosta, a volte, con pudore, agli spazi esplorati, giunte mentali, colorate di azzurro, mosse da un vento alto e sottile. Una pittura sempre più casta, che si cerca ai confini naturali, nell’esplosione del fiat nel dominio della luce.
Nel tormento della mortificazione ed esaltazione dell’immagine, con estrema coerenza, Mario Raciti si è spinto oltre l’arcipelago dell’informale e non ha cercato certezze nell’ordine astratto, varchi nel labirinto segnico. Ascolta il crepitio dei minimi avvenimenti, spia le intermittenze del cuore, disperde inganni e abbagli.
Con ininterrotta tensione, frantumata e rinascente, una interrogazione, quindi, al limite del dicibile e del figurabile, registrazione di messaggi in un codice ritrovato nelle caverne memoriali (si sa, Marcel Proust è uno dei suoi autori), o svelato dalla meraviglia di esistere. Assoluta è la qualità della sua rilevazione-rivelazione, della sua registrazione delle orme d’una sparizione, degli annunci di una ricognizione estrema.
(Raciti devoto del bianco e del silenzio, in “Corriere della Sera”, 3 novembre 1991)