Di fronte all’ignoto che si apre un varco fin dentro le nostre parole, fin dentro i nostri gesti più quotidiani, magari nella noia che, come ha detto Leopardi, è la percezione del nulla ad ogni istante, o magari in uno sguardo luminoso che ci fissa all’angolo di una via, o magari, ancora, nelle grandi domande che ci rivolgiamo sull’essere e il nulla, irrompe l’aura del terrore. E un giorno l’uomo ha rappresentato il terrore nella Testa della Medusa: non ha vinto il terrore ma l’ha contenuto in una forma. Un giorno dunque l’uomo ha fatto nascere il mito, ha fatto nascere le immagini, la storia e le storie, che danno una forma alle terribili domande senza risposta sull’origine, sulla fine, sull’altro.
E un giorno, raccontano i manuali della storia del pensiero, è sopravvenuta la filosofia, il potere del Logos, che si è fatto carico del problema di fronte al quale era nata la parola mitica, rendendo questa parola sorda, opaca, come un oggetto lasciato lì sugli scaffali della storia: testimonianza non di una verità, ma della via lunga che abbiamo percorso a partire da quella illusione, da quell’errore. C’è anche stato chi ha detto che il mito conteneva già la sua fine. Il filo di Arianna che guida Teseo nel Labirinto è il filo della connessione logica; il filo della spada di Teseo è il filo tagliente del pensiero che recide ogni rapporto con la mostruosità dell’inconoscibile, dell’ibrido, del diverso.
È una descrizione incompleta. Quel mito non finisce con la morte del Minotauro, ma con quella del padre di Teseo, perché nel mito non c’è violenza che non paghi il fio con altra violenza. Ma non solo non finisce quel mito. È il pensiero mitico che non finisce a quel punto. Certo, nasce allora un’organizzazione dello stato (la polis) che dirime il giusto dall’ingiusto; nasce un pensiero, quello filosofico, che dirime il vero dal falso; nascono confini che dirimono il selvaggio da ciò che è civilizzato, il dentro e il fuori, il cittadino e lo straniero; si organizzano culti che regolano il rapporto tra l’uomo e il divino, che utilizzano anche il mito normativamente in funzione culturale. Ma nasce anche il pensiero tragico, che riprende del mito gli aspetti più dirompenti per rendere di nuovo fluide, porose, transitabili, sfrangiate le frontiere tra l’io e l’altro.
Questo è infatti la tragedia. La forma entro la quale viene colto il rapporto tra quelle opposizioni che George Steiner ha definito “non negoziabili” e che costituiscono l’essere stesso dell’uomo nel suo rapporto con se stesso e il mondo. La tragedia è così radicale nella sua opera di fluidificazione di ogni frontiera, per trasformarla nella soglia su cui transitano le differenze che si rendono così visibili in quanto differenze, che finisce per mettere in questione ogni sapere, anche quello del mito, anche quello della tragedia stessa. Ma non è un caso che all’inizio della modernità, Schlegel e Balzac si appellino alla necessità del mito per dare una forma all’immensa pluralità del moderno. Non è un caso che Nietzsche richiami la necessità della tragedia per parlare del suo e del nostro tempo.
George Steiner afferma che la vera, forse l’unica decisiva rivoluzione della modernità, è quella che avviene tra gli ultimi decenni del XIX secolo e i primi decenni del XX secolo. È la rottura del patto mimetico che garantiva che ad ogni rappresentazione corrispondesse un oggetto, una cosa, un significato nella realtà. Tutta l’arte moderna nasce da qui. Nasce cercando di dare, ancora una volta, come ai tempi della nascita del mito, forma a uno spazio che non è più garantito da nulla.
Il pittore si muove appunto, lo ha scritto Raciti nel 1991, nello spazio dell’irrappresentabilità. Che cos’è la cosa? Raciti scrive: aspirazione all’oggetto e impossibilità di raggiungerlo, perché qui si apre lo spazio della dissonanza, delle antinomie, la tensione tra diurno e notturno, tra storia e mito.
La cosa diventa uno spazio carico di tensioni. Si procede dentro la cosa come dentro il buio. Eppure lì “l’orizzonte si apre”.
Mario Raciti. Non sono un frequentatore abituale di gallerie. Forse le più grandi emozioni della mia vita sono legate alla pittura, che ho però frequentato soprattutto nei musei. Avevo visto quadri di Raciti, immagini su cataloghi. Avevo letto di lui, come di uno dei protagonisti della pittura italiana a partire dagli anni sessanta.
Nell’autunno del 1991 ho ricevuto una sua lettera. Aveva letto un mio libro, L’enigma della bellezza (Feltrinelli, Milano 1991), e mi invitava alla sua nuova mostra. Era d’autunno, un pomeriggio di un autunno luminoso, quando sono entrato in Galleria e ci siamo conosciuti. Non abbiamo parlato molto. Abbiamo camminato a lungo in mezzo ai suoi quadri.
S’intitolavano tutti “Mitologie”.
Non c’erano in quelle carte appese ai muri tracce di miti conosciuti. Non c’era alcuna archeologia. Guardavo e, un poco alla volta, mi pareva di scorgere in quelle immagini una nudità assoluta, la nudità di quell’opposizione tra l’io e l’altro, che è alla base del mito. Ma c’era anche qualcos’altro, che si muoveva ancora oscuramente dentro di me, come una forza segreta: un desiderio, e forse, anche, una sorta di eccitazione.
Per scoprirlo cominciai di nuovo a guardare quelle carte come carte, appunto, come mappe. E come su ogni mappa si scorgevano cose conosciute: memorie di stili, un certo sapere visivo epocale, frammenti e segni che forse avevano abitato altrove. Talvolta il percorso su di una mappa si interrompeva e riprendeva su una seconda mappa, posta a fianco della prima, e le due mappe iscrivevano nel loro tessuto questa cesura, come lo spazio in cui si mostra l’indicibile che arresta il nostro pensiero o il nostro cammino, che può essere mostrato soltanto nella sua indicibilità. Talvolta una zona non era nemmeno toccata dalla pittura, e si presentava come un puro non detto, come un puro non ancora detto. Talvolta il segno superava il margine stesso della carta, in un’improvvisa voglia d’azzurro e di orizzonte. E poi punti di buio, concrezioni di linee che affondavano dentro la superficie in una profondità che sembrava irraggiungibile, come se lì ci si sporgesse davvero verso un oltre, dentro un enigma.
Mi accorsi che delle opposizioni non negoziabili, delle antinomie insuperabili che costituiscono l’opposizione tra l’io e l’altro, Raciti aveva scelto quella di Eros. Eros è aritmico, smisurato, ha scritto Euripide. L’amore divide e plasma il mondo ha scritto Schlegel. Eros è la scoperta che la massima prossimità al corpo dell’altro è la rivelazione che l’altro è altro, irrimediabilmente altro.
L’amore dà al mondo la forma della sua aritmia, della sua divisione, dell’irrevocabile alterità dell’io e del tu, dell’insuperabile differenza del femminile e del maschile.
L’enigma del sesso, dunque, in una delle pitture più scopertamente erotiche che io avessi visto tra i miei contemporanei.
Che cos’è un racconto si chiede Conrad? Che cos’è un’opera d’arte? Non è il gheriglio nascosto in un guscio. È “ciò che avviluppando finiva per rivelarlo come la luce rivela la foschia, allo stesso modo in cui l’illuminazione spettrale del chiaro di luna rende a volte visibile gli aloni luminosi”.
Quella pittura metteva in luce ciò che è nascosto nel suo rimanere nascosto. C’è un passo nel mio libro L’enigma della bellezza che forse aveva motivato l’invito di Raciti. In questo passo parlo dell’inconciliato e inconciliabile Eros, che si manifesta nella fragilità del suo apparire. In questo apparire leggevo, insieme a Benjamin, l’enigma stesso della bellezza, il conflitto che si manifesta nell’opera d’arte. “Il bello dunque privo dell’apparenza del bello, perde questo suo carattere antitetico e per questo ’cessa di essere essenzialmente bello’. L’apparenza è per così dire l’involucro della bellezza, ma un involucro che non può mai essere lacerato e rimosso: ’qui è la legge essenziale della bellezza, che essa appare tale solo in ciò che è velato’. (…) La bella apparenza è l’involucro di ciò che è più velato, ma ’né l’involucro, né l’oggetto sono belli, ma l’oggetto nel suo involucro’”.
Avevo, mi pareva, raggiunto un’intimità con l’opera di Raciti: una sorta di complicità. Ma la storia non era finita, io avevo riflettuto molto su quel passo di Conrad: compito dell’arte è rendere visibile la foschia, gli aloni, l’ombra. In una parola: il mistero. Simone Weil afferma che il compito più alto della filosofia è mostrare le opposizioni inconciliabili nella loro inconciliabilità. Di fronte a contraddittori insolubili siamo di fronte alla porta che è necessario varcare, e l’unico modo di varcarla è attraverso la nozione di mistero. Il mistero è la forma che ci concede di stare sulla soglia della contraddizione, è la forma dell’ombra che luce e buio, vita e morte, assumono dentro il destino umano. George Steiner dice che un’opera che non ci sporga su questo mistero non solo è inutile, è immorale.
Attraverso Anassimandro, Parmenide, Platone, il tragico, Eckhart, Leopardi, Conrad, Eliot lavoravo su queste forme e su questi concetti. Non avevo più né visto né sentito Raciti. E nel gennaio di quest’anno, mentre usciva il mio nuovo libro Le soglie dell’ombra. Riflessioni sul mistero (Feltrinelli, Milano, 1994), ho ricevuto un’altra lettera di Raciti che m’invitava nel suo studio.
Sono arrivato a Milano tardi la sera, dopo una giornata di lavoro e di viaggi. Avevo ancora nelle orecchie il ritmico e buio rumore delle ruote del treno sui binari, quando sono salito sulla sua macchina e ci siamo diretti verso la periferia. Raciti aveva dipinto un’altra serie di quadri intitolati “Misteri”.
Siamo entrati nel suo studio, una piccola tana calda, piena di dischi e di musica. Ho bevuto una diet cola, sperando di cancellare il sapore amaro del viaggio, e ho cominciato, ancora una volta a guardare. Raciti esponeva le sue carte e taceva. Guardavo e ascoltavo il rumore della fiamma dentro la stufa.
Perché il primo moto è stato, lo confesso, qualcosa di prossimo alla delusione? Cercavo qualcosa di familiare, e non l’ho trovata. Cercavo, me ne rendo conto, l’emozione erotica dei quadri che avevo visti nell’autunno del 1991. Cercavo quel percorso vagante che portava a incrociare, prima o dopo, il cretto buio del sesso. C’era invece qualcosa di primordiale, che veniva prima del sesso, e che cercava di prendere forma sulla carta. Credo di aver anche forzato la pazienza di Raciti accusandolo quasi di tradimento: dov’erano quelle forme che mi avevano inquietato e quasi eccitato? Non era la sua una rinuncia, e un tentativo di ritorno alla centralità classica?
Raciti è un uomo mite. Ha sopportato le mie obiezioni. Le sue risposte erano molteplici, ma in realtà erano soprattutto un invito a guardare, a guardare meglio.
Raciti si era mosso in questi due anni, come io stesso mi ero mosso. Si era mosso dalla rappresentazione dell’opposizione fondamentale io/altro attraverso l’aritmia erotica. Ma non si era “accasato” nei risultati raggiunti, appunto nella sua rappresentazione, che è sempre una forma di dominio. Ora si proponeva di affacciarsi sul mistero stesso di quella opposizione. Dunque la rappresentazione dell’irrappresentabile, ma questa volta senza sollevare nemmeno un lembo del velo di mistero che la chiude, perché il mistero stesso diventa la cosa da mostrare, diventa la cosa da amare. Bisogna seguire l’incalzare delle domande fino alla domanda decisiva, in cui sta forse il senso stesso del destino umano. Nella capacità di arrivare a questa domanda forse sta la legittimazione della parola, della forma, dell’immagine, della figura.
Non sono quello che si definisce un critico d’arte militante. Mi muovo attraverso le mie parole per raccontare il senso di una mia esperienza. Dopo che sono uscito dallo studio, quelle immagini mi hanno accompagnato. Ora, mentre sto scrivendo, le ho qui accanto a me, una sequenza di fotografie, che ho sfogliato, guardato, rimescolato. Ora, la prima, quella che sta sopra le altre, rappresenta un foglio di carta velato di pittura, e percorso da ondulazioni che sembrano i brividi stessi del vuoto. Sul margine in basso, quasi centralmente, c’è un segno indecifrabile e la sua ombra. Alla sua sinistra alcuni segni tracciano una via che si interrompe e che riprende verso l’alto: è una linea verticale che s’incurva verso l’interno del quadro, parallela alla linea di buio che è il confine a sinistra, o meglio la soglia, in cui la pittura cessa di essere tale per perdersi o guidarci, ancora una volta, nell’ombra.
Nel gioco casuale di queste immagini che muovo davanti a me, ora sto guardando una superficie chiara, percorsa da segni leggeri. Raciti ha la sapienza della leggerezza. Sa che rappresentare può essere un gesto di decisione violenta, che organizza il mondo, che include ed esclude con la forza di una macchina da guerra. E questi segni si aprono un orizzonte. Scoprono che al di là dell’orizzonte della cosa e delle cose, si apre sempre un orizzonte ulteriore: uno spazio d’azzurro, anch’esso tenue e leggero, anch’esso aperto.
In un’altra immagine l’orizzonte in alto a sinistra s’incupisce, ma il mondo è attraversato da una traccia di giallo, che lambisce quelle che una volta erano state forse le tracce oscure di eros. E in un’altra immagine ancora, è una forma dai contorni imprecisati che si sta avvicinando alla linea di confine, alla soglia, che attraversa il quadro, là dove potrà forse mostrarsi in tutta la sua pregnanza. Effettivamente un’altra immagine mi dice che la forma è arrivata al centro, alla soglia, alla linea che divide la mappa, ed è sul punto di trasformarsi in oro, ma quando questa, finalmente è sulla soglia, dentro il giallo scopriamo un’altra traccia, una traccia di bianco, e la parte che sta a sinistra della linea di confine è quasi coperta da un’ala nera.
La mia prima impressione è stata completamente smentita. Questa mostra è un racconto. In essa non c’è una forma che cerca di sostituirsi al vagabondaggio dei vari segni che si accampavano in “Mitologie”: c’è una forma che contiene una pluralità di forme, il mistero della pluralità delle forme e degli esseri che abitano la terra.
Cerco di spiegarmi il motivo per cui non avevo visto tutto questo, e avevo protestato, come se Raciti avesse rinunciato alla pluralità in favore di un’unica immagine, di un’unica forma. Il segno di Raciti è leggero: è lieve fino alla fragilità. In questa lievità, in questa fragilità si era nascosta la molteplicità. Ma la fragilità è l’essere stesso della creaturalità. Non c’è segno che esprima più compiutamente l’esistenza: dell’uomo, delle cose, del mondo. Non c’è segno che sia più prossimo alla verità, anche se millenni di volontà di potenza ci hanno detto l’opposto.
Nella ex-Jugoslavia gli uomini si affrontano in un mattatoio perché non vogliono più vivere insieme. Vogliono vincere. Nell’ospedale di Mestar stanno i figli dei caduti. Nessuno sa se siano serbi, croati, bosniaci, mussulmani o ortodossi. Vivono nell’orrore. Vivono insieme. La loro fragilità si spinge verso di noi, verso il futuro, creando lo spazio stesso per una possibilità di andare oltre l’orrore, per la possibilità che quelle frontiere – le frontiere – diventino transiti, passaggi.
Tra gli eventi e le forme non sembra esservi rapporto. In realtà c’è un rapporto profondo, che si mostra appunto in queste mappe. L’arte non è mai stata alleata alla volontà di potenza. Non è mai stata armata sui confini. L’arte ha sempre disegnato passaggi. L’arte è un transito.
(Di fronte al mistero, in catalogo delle mostre personali, Galleria Morone e Galleria Spazio Temporaneo, Milano, 1994)