Ho sempre avuto l’impressione che nelle pitture di Raciti balenasse l’ignoto. Qualcosa cioè d’imparagonabile all’ignoto-del-noto, a quel gruppo o groppo di fantasmi prestabiliti, di variazioni senza fine, di autoevidenziazioni che quotidianamente ci affliggono.
Qui le composizioni, armoniose nonostante tutto, aprivano le profondità di un vuoto via via variegantesi, la fragilità di un equilibrio tuttavia saldo, tutta-via resistente… puro pulsare, ruota enorme di sogni…
La cautela che temperava a volte il mio aderire, il mio starci, risiedeva in un punto: l’identificazione qua e là emergente tra la libertà del pensiero, le necessità inerenti della forma e alcune inquietanti problematiche dominatrici nel secolo appena trascorso.
Raciti ha incorporato da tempo misurazioni acute della riflessione filosofica; così come gli avvisi privi di gratificazione della criticità non obbediente – e si sente. Solo che oramai ciò che appariva come l’andamento mosso e ricco di punte dello svolgersi culturale si è quietato, tende a ripetersi, non lascia la casa. In altri termini, credo, che la virtù dell’artista contemporaneo non possa che spostarsi, persino da quanto abbiamo di più caro, di più consolante, quelle segrete verità che poesia pittura musica e altre danzanti discipline hanno generato e continuano a generare…
La pittura odierna di Raciti mi pare ad una svolta.
Una svolta tuttavia da tempo preparata, attesa. È che qui, lungo le corsie dei lavori esposti – nell’ariosa e misteriosa continuità delle grandi tele, in particolare – un elemento originale armoniosamente s’intaglia e si staglia, senza equivoci, nella profondità delle matasse aeree, e terrestri insieme, di un esserci che nomina, che chiama… Come se si elevassero lampi oscuri o addirittura facsimili di mani in quelle apparenze di pace, senza però che ciascuno degli interpretati prevalga, prevarichi – “prevaricare” è verbo radicalmente escluso, e da sempre, presso un artista così privo di compromessi, così distante dalle grettezze.
Qualcosa di profetico? Di scaturito a forza da irrimandabili urgenze, che nondimeno permane in equilibrio, mantenendo tensioni e attriti entro sé come un po’ si è tentato di dire in precedenza (l’ignoto… l’esaurirsi di una tradizione… lo spostarsi…). Non sarà facile addentrarsi tra lavorazioni così intense di bellezza non addomesticata… occorreranno forse più visite, più soste, un vagabondare, noncuranze, com’è giusto, a liberamente consentire svelamenti, raffronti…
Sembra, questa pittura di Raciti, vuoi l’esito di un tragitto, vuoi la fondazione di una soglia. Ombre reali che interrogano; fedeltà a modelli di assoluto: ci si cerca.
(Lampi oscuri, in Mario Raciti mani mine misteri, catalogo della mostra personale, Solaria Arte, Piacenza, Signum Edizioni d’Arte, 2005)