Tutta l’opera di Raciti è praticamente improntata ad una dialettica tra segno, colore (come presenza, come macchia, insomma come forma emblematica) e spazio. È una dialettica che ritroviamo fin dalle sue prime prove allorché sussisteva ancora una sorta di racconto prodotto da una realtà immaginata, rivisitata introspettivamente, da una fantasia ed anche da un rarefatto trasporto lirico. Furono citati a quell’epoca, come punti di riferimento, i nomi di Mirò, soprattutto di Klee, ed anche quelli di Licini e Kandinsky. Si accennò pure – ed a maggior ragione – a Novelli. Da queste premesse il discorso del pittore milanese si sviluppò via via in maniera coerente e, perso ogni contatto con desinenze sia pur lontanamente figurali, divenne sempre più astratto, almeno per gli elementi, per gli strumenti da lui usati. Non erano più le “emergenze” della realtà ad interessarlo, cioè quelle annotazioni dovute ad un viaggio sentimentale intorno alla sua stanza, quanto il viaggio stesso; intendo riferirmi a quel percorso del tutto mentale e di aperta partecipazione col quale veniva ad esplorare la tela in un rapporto frontale e diretto, intimo e sorgivo. Da tutto ciò è scaturita insomma in questi anni una serie di annotazioni, a volte persino struggenti, che danno vita – come dicevo poco fa – ad una continua dialettica, quasi ad una vitale contrapposizione, ad una penetrante integrazione che trae origine da situazioni dettate dall’inconscio.
La partecipazione del pittore è pertanto diretta, completa, anche se – non si dimentichi – è estremamente calcolata, controllata. Il suo rapporto con la tela è infatti immediato nella trascrizione, ma non per questo va confuso con una espressione istintiva o gestuale. Se egli nel quadro trasferisce una realtà che gli è propria, ciò avviene sempre nel rigore di una logica compositiva, addirittura, si potrebbe affermare, nel rigore di una costruzione architettonica che presiede il disporsi di queste tracce, siano esse segni o presenze di colore. Ne consegue un’assolutezza che gli spazi distesi e vibranti e pittoricamente risolti posseggono quali autentiche testimonianze di situazioni esistenzialmente vissute e come tali trasferite attraverso un filtro mentale. Se il segno infatti, se la disposizione delle macchie di colore costituiscono nel loro insieme un’espressione, un’affermazione ed anche una testimonianza, proprio per quel controllo mentale che li caratterizza si trasformano in altrettanti atteggiamenti critici. Sono insomma delle scelte e quindi delle espressioni di libertà. È come se Raciti operasse attraverso un’indagine introspettiva con un’ironia – di socratica memoria – cui subito dopo subentra una maieutica di situazioni legate all’esistere, all’essere in un certo modo. Il tutto logicamente avviene nell’ambito di un’accensione lirica che lo spazio dei dipinti – Raciti lo chiama spazio testimonianza – esalta in un dialogo, in una dialettica che nelle opere più recenti si è maggiormente definita con mutazioni tonali le quali in un certo senso vengono come a dividere con delicate sfumature lo spazio stesso. Avviene così che all’interno dell’opera, che va intesa anche come libera ed umana disponibilità nell’ambito dell’immaginario, troviamo una contrapposizione ed una fusione, quasi uno spiazzamento ed una diversificazione. È tuttavia il caso di chiarire meglio il concetto poiché ciò che Raciti ottiene è sostanzialmente un’ambivalenza da non confondersi come risultato, di un rapporto tra positivo e negativo oppure tra chiaro e scuro. Si ha infatti uno spazio che si riflette su se stesso o in altri casi una situazione che si assomma e che si differenzia offrendo la possibilità di un percorso, di una dinamica che si apre pertanto ad un accenno quasi surreale.
Quella soffusa tensione che ogni quadro in passato ci opponeva è venuta come ad accentuarsi di sottili inquietudini e di velati allarmi. E il segno, – segno non soltanto grafico bensì pittorico per le vibrazioni che gli sono proprie – questo segno che si dipana e che dialoga con macchie di colori, con presenze accennate di colore – predominano i bianchi, i bruni cenere, i grigi velati ed anche i neri – nella sua assoluta astrazione diventa quindi ancora più penetrante, più incisivo in un continuo divenire. Nulla insomma è concluso, definito; lo spazio e le forme e i segni che in esso alitano, queste nostalgie di immagini, tanto astratte quanto reale e partecipata è la presenza del pittore, costituiscono nella loro essenza una genesi.
(Presentazione, in catalogo della mostra personale, Galleria San Luca, Bologna, 1976)