Da quando, solo qualche anno fa, Mario Raciti ha iniziato a lavorare sulla materia del pastello, in modo quasi inaspettato, dapprima silenzioso e segreto e poi invece annunciante, la sua già altissima tensione di poesia è cresciuta fino a un punto che sembrava non raggiungibile. Come se il senso del suo racconto pittorico attendesse da lungo di incarnarsi in questa polvere e lui, il pittore, avesse per tanto tempo desiderato sporcarsi le mani, i polpastrelli con questi colori come la luce e il vento, il silenzio e la voce del tempo. Perché d’incanto tutto è stato proprio tempo, sospensione e soprattutto rivelazione dello svelarsi. È questa l’azione creatrice che sostiene, e prima ha fatto nascere, e ancor prima concepire, la bellezza castigata dei fogli di Raciti.
Si sa, è cosa nota. La sua pittura, fatta di segrete congiunzioni di spirito e materia, è la continua emersione del mondo alla luce, e per antitesi lo sprofondamento del mondo dalla luce all’indistinto delle tenebre. Che allora si vedono nella loro forma rovesciata, come se esse ci fossero date per calco, per impressione capovolta, e da lì, da quella posizione lontana, poter comunque vedere lo spiraglio, il pertugio entro cui si infila, dolcissimo, stremato e struggente, il fiotto della luce.
Ma nei pastelli tutto questo s’ingigantisce, e quanto ci viene presentato è la scomparsa, il viaggio che fa la luce prima di riapparire, di svelarsi e rivelare così il mondo attorno. Non c’è peso, né sostanza di cose, e tanto meno traccia di realtà. Tutto fluttua entro un silenzio che non è mai indistinto, non è mai solo la volta del cielo e neppure la linea striata di una cometa. È questo galleggiare che fanno non le cose ma le presenze, la loro aria, l’essere circonfuse di un lume mattutino e serale o addirittura notturno. E poi il dirompersi del colore, non per lacerazione ma nel dissolversi, e quasi dissanguarsi, dei bordi i più estremi, i confini dei confini. In quella zona dove la pressione più forte del colore si risolve nella sua completa fusione dentro la nebbia del primo mattino.
Sono così ectoplasmi, presenze organiche, forme del sogno e della memoria. Non c’è distinzione, nulla che dia l’idea di un prima e di un poi, ma sempre la contemporaneità del tempo, la sua costruzione e poi disgregazione, e l’agglomerarsi in una forma superiore, suprema, dove ogni elemento di quella costruzione si annulla per raggiungere il tono di una diversa armonia. Da questi fogli esce dunque solo il racconto di un’apparizione, e più ancora dell’atto dell’apparire, e non c’è nient’altro che Raciti coltivi se non questo viaggio continuo, estremo, dove giorno e notte si toccano, dove ciò che non si vede è invece ciò che si vede e dove l’assenza è l’eco perdurante di una stremata, bellissima presenza. Come se ciò che è fosse stato da sempre nel fondo della luce degli occhi. Gli occhi non solo vedono ma sentono.
(Il mare della luce, in Raciti, I pastelli, a cura di Marco Goldin, Linea d’ombra Libri, Conegliano, 2001)