Interviste > Conversazione con Mario Raciti a cura di Mariella Gnani

Sono in viaggio per raggiungere il maestro Mario Raciti che mi attende nel suo studio a Milano. Sul treno vivo l’ansia del ritardo, già annunciato, che cerco di controllare rivedendo gli appunti e le domande annotate sul mio taccuino. Mentre il paesaggio scorre veloce dal finestrino, rifletto sul fatto che da sempre mi occupo di quadri o meglio del loro “stato di salute”.
Verifico la corretta tensione della tela, che la mestica sia aderente al supporto, che il legante sia ancora in grado di tenere incorporato il pigmento, che le deformazioni della superficie siano appianabili e tutto mi viene facile. Appagata quando, terminato l’intervento di restauro, riconsegno l’opera “guarita dai malanni”. Ma ora mi rendo conto, mentre il treno recupera sul tempo di percorrenza, che “la cosa” si complica, si fa difficile perché devo immergermi nell’opera da un altro punto di vista: trovare chiavi di lettura che mi svelino il messaggio e il significato. In altre parole la poetica. L’unica immagine che riesco a mettere a fuoco è quella delle riproduzioni in catalogo pensando all’impressione che mi faranno quando avrò la possibilità di vederle, di toccarle, quasi accarezzarle. Per me forte atto percettivo. Non mi soffermo con il pensiero sull’uomo-pittore, in questo momento non mi interessa, prevale esclusivamente l’opera, con la sua presenza, i suoi ritmi. […]

Mariella Gnani: Maestro come maturò la scelta di dedicare la sua vita alla pittura?

Mario Raciti: Per necessità. Spinto da un impulso interiore. Non potevo sottrarmi a quella tensione. Sentivo che dovevo seguire quella strada con la consapevolezza che il percorso sarebbe stato difficile ma necessario. Dopo la laurea in Giurisprudenza e un momentaneo esercizio della professione legale, decisi irrevocabilmente di seguire la mia inclinazione, abbandonando tutto il resto.

M.G.: Parliamo dei suoi inizi.

M.R.: Nella mia prima produzione dipingevo paesaggi, guardando a De Pisis e al Novecento. Poi verso gli anni Sessanta cominciai ad avvertire l’esigenza di costruire una diversa immagine, emblematica, visionaria, cercando nei substrati della pittura; raccontare non direttamente cose ma suggestioni che sottintendessero altro, immagini lontane.

M.G.: E il clima culturale di quegli anni? Quali erano i suoi riferimenti?

M.R.: Più di riferimenti direi affinità. Alcune formali, altre di contenuti. Sicuramente ero interessato all’intrigo di un segno filiforme e qui l’affinità, ad esempio, con Gorky. Più di Novelli, a cui sono stato accostato per questioni di forma esteriore (il bianco, la matita). Ma sostanzialmente sentivo più fortemente la propensione all’evocazione di elementi emblematici e di visione come in Redon, in Max Klinger, in Böcklin (ecco come artisti fondamentalmente lontani generano vicinanze nella sostanza). Inventavo immagini simboliche: faro, giostra, tunnel, spiritelli, figure provenienti dall’esterno atte a configurare una visione interiore vicina a una propria concezione del mondo. Ero sicuramente lontano da tutta quella “pittura realista” intrisa di sovrastrutture d’immagine, che ha portato l’arte più d’una volta a essere non-pittura, illustrazione. L’immagine per me, piegata dalla forma, emblematizzata, nella sua sintesi deve assumere quella valenza astratta che la fa “altra”, forte della sua necessità interiore.

M.G.: Avverto una musicalità ritmata. Data da suoni-immagini che si fanno di volta in volta acuti o gravi. Può dirmi come vive la musica?

M.R.: In modo intenso, al punto che potrei dire che per me musica e pittura sono un incontro necessario. Credo che la musica riesca a esprimere con maggiore libertà e che, per quanto mi riguarda, vada in soccorso alla pittura. Se ascolti Tristano e Isotta di Wagner, a un certo punto senti Tristano cantare le parole “odo io la luce”. Colore e suono si fondono in una trasposizione totalizzante, l’uno diventa l’altro e viceversa. Il suono emergendo, non ha dati mediati, intermedi. È in presa diretta. Mentre la pittura necessita di una mediazione costretta com’è dall’immagine che è un referente. La luce (la pittura) fatta suono esercita su me un fascino indescrivibile. Non riesco a vedere la pittura se non come emanazione di suono. Da qui il senso dell’immediatezza che cerco in pittura, della spontaneità, dell’invenzione libera fino a sfiorare l’assurdo visivo. Un’opera troppo costruita, molto pensata o è altamente geniale o mi insospettisce.

M.G.: Ho letto del suo amore quasi incondizionato per Mahler.

M.R.: Si, è vero. La musica di Mahler è caratterizzata da dissonanze e antinomie, insieme ad abbandoni e dolcezze. Attribuisco grande valore alla dissonanza e certamente la musica, nella sua immediatezza, è più efficace della pittura. In musica più che in pittura possono avvenire cambiamenti repentini. Si odono note alte, basse, variazioni di timbro, ritmi spezzati, pause, silenzi, che sono musica. Comunque la pittura, per il mio modo di sentire, non può essere solo pittura ma in essa convivono musica, poesia, parola, segno. L’opera d’arte è un’esperienza “folta”. Una mia passione giovanile, mai abbandonata, è Dostoevskij. Come in Mahler, troviamo l’idea di un mondo composito, molteplice, unito da elementi contrastanti. La profondità è spesso contrasto. Umanità. Abbiamo alti e bassi, chiari e scuri, bontà e abiezioni. Questo è l’uomo.

M.G.: Quale definizione riconosce significante per la sua pittura?

M.R.: Non amo le definizioni assolute. L’incasellamento schematico che semplifica e appiattisce. Ma se devo dare una definizione direi, con una certa ironia, che sono un “pittore naturalista”. Intendendo per natura, il profondo. La natura è interiorità. È certamente questo il mondo che mi interessa indagare, perché tutto contiene. Da quel luogo tutto tenta di emergere, per essere respinto, compresso, rielaborato per tornare nuovamente. Le mie opere possono essere definite “pittura astratta” ma pensi che, per alcuni, sono troppo figurativo per essere definito astratto, per altri viceversa, io lascio libera strada a che le immagini nascano dall’inconscio. Il raziocinio sopravviene dopo. Tutto nasce da lì. Anche la razionalità, almeno in arte. Ci sono stati artisti puristi, concretisti affetti da nevrosi coatta. Ce n’era uno che doveva continuamente lavarsi le mani. Faceva una pulitissima pittura geometrica.

M.G.: Arriviamo alla produzione del 1968. Parliamo delle due opere esposte.

M.R.: L’anno 1968 segna un passaggio nel mio fare, di cui sì può trovare qualche traccia nei due quadri esposti. Il primo, Spiritelli in gabbia, è uno degli ultimi Spiritelli, che avevano fatto il bello e cattivo tempo nella mia pittura degli anni 1966 e 1967, con le loro implacabili lotte con gli L.B. È un quadro stranamente scuro: in genere le vicende degli spiritelli si svolgevano in una dilatata azzurrità. Qui costoro hanno evidentemente perso la battaglia finale con i perfidi L.B. Infatti sono finiti in gabbia.

M.G.: Gli spiritelli sono entità che cercano un’altra dimensione per sentirsi liberi e collocarsi in uno spazio nuovo? Forse non è un caso che questo desiderio coincida con un preciso momento storico in cui tutto viene messo in discussione e sovvertito dalla manifesta volontà di rottura con i vecchi schemi socio-politici?

M.R.: Indubbiamente non è un caso. Era il 1968. Il disagio, il malessere era diffuso e bisognava trovare altre dimensioni. Uno spazio nuovo, di libertà. Quel mondo poteva essere dischiuso attraverso la chiave dell’ironia, del gioco, dello sgambetto degli “spiritelli”. Questa era solo una via tra le tante, innocua.

M.G.: E Piccolo viaggio?

M.R.: Sì. La svolta che doveva avvenire nei mio lavoro si annuncia proprio con Piccolo viaggio. Tema di cui esiste più di una versione (Viaggio per i quadri più grandi). Il tema del viaggio è fondamentale nella mia formazione (il “Wanderer” nella tradizione romantica mitteleuropea); d’altronde per arrivare a quell’“altrove” tanto agognato nella mia pittura bisogna viaggiare, e molto, col rischio di uscire dalla tela e col rischio terribile di non arrivare, mai. Da quei viaggi sconsiderati in quei luoghi del “non dove” nasceranno negli anni Settanta, le Presenze-Assenze.

M.G.: Nel 2008 con le ultime opere ci troviamo immersi in un mondo diverso.

M.R.: Dagli Spiritelli degli anni Sessanta, dalle Presenze-Assenze degli anni Settanta, un po’ di acqua è passata sotto i ponti della mia pittura. Le Presenze-Assenze, così aeree e dilatate agli inizi degli anni Settanta, vanno precipitando alla fine del decennio verso forme più corrusche e controverse. Nasce la “grande divisione” tra due spazi, chiaro e scuro, giorno e notte, positivo, negativo. Dicotomie poi sanate nella risalita a un tempo remoto, primordiale: nascono le più figurative Mitologie, che perdurano per tutti gli anni Ottanta, fino a dar spazio ai Misteri. Ho già parlato di una mia visita all’imbrunire a San Zeno di Verona: pioggia fuori, chiesa buia, si va all’uscita. Improvvisamente vedo un’unica forte luce: la bara del santo ancora illuminata nella cripta. La finzione di un miracolo che poi diventa il miracolo della finzione: che è ciò che avviene nell’arte. Allora la bara comincia a viaggiare nei miei spazi inesplorati, assieme a sirene, pescatrici di perle nere, siluri, fuorusciti da tanto di sommergibili. Uno spazio “sotto” marino. Cerco, dopo il “sopra”, appunto il “sotto” attraverso faglie di pittura e orizzonti sempre più innalzati. Dove siamo? Che cosa siamo? Il tempo passa, le domande incalzano. Nihil? Aliquid? Jein? (Contrazione di ja e di nein, parola che usava Furtwängler mentre concertava un brano musicale: dall’attrito dei contrari, il Vero?). E, da ultimo, nella lingua universale d’oggi, il titolo dei miei quadri più recenti. Adombrano delle crocifissioni. In un mondo che va altrove, la serenità è anacronistica. Il titolo è Why.

M.G.: Perché?

M.R.: Perché mi hai abbandonato. Perché l’altrove è muto. Perché il mistero degli spazi altri. Perché siamo. Perché se non ci contenta il “qui e l’ora” e scendiamo nel profondo, le domande si ampliano e le risposte mancano. Allora il dubbio.

M.G.: Penso a Borges.

M.R.: Certamente. Per Borges “il dubbio è uno dei nomi dell’intelligenza”. L’ambizione di ognuno di noi è quella di esprimere una presunta verità, ma il mondo in cui viviamo è fatto di false verità, di atteggiamenti votati alla convenienza, in cui gli scambi sembrano solo misurati dai poteri di forza. Mentiamo. Allora l’unico modus vivendi che ci resta eticamente è quello del dubbio. Che non è debolezza e indecisione. Il dubbio, di cui parlo è positivo, incrina per renderci critici e più autentici.

M.G.: Maestro, allora non è riuscito a trovare qualche risposta nella sua pittura?

M.R.: Non esattamente. In arte non funzionano certi criteri della logica. L’arte è lo spazio dell’utopia. Nel mio particolare ambito, se trovi vuol dire avere finito. Giungere alla fine di un percorso porta a incasellare, circoscrivere, chiudere uno spazio che invece ineluttabilmente si protrae oltre. C’è il miracolo dell’arte… Ecco che il dubbio diventa nutrimento dell’immagine, permette alle ipotesi costruite su di esso di avverarsi. Le nostre crisi si sciolgono come per incanto e anche un mondo sospeso, improbabile, assume la forza della ineluttabilità: quelle presenze irrisolte assumono la carica di una Verità, una Poetica Verità. Il miracolo della finzione. E lo sciogliersi delle nostre angosce nel canto. L’arte, anche quella che mostra perversioni, è sempre canto. Canto come pienezza dell’essere, come forza del sé. Sento la massima esaltazione, quando in un teatro lirico, vengo avvolto nella forza di un declamato e poi segue l’aria e gli strumenti si impennano in crescendo e alla fine scoppia un mare di applausi. Lo stesso mi capita davanti all’opera visiva, quando l’opera “canta”. Non sempre le opere cantano. Il loro cantare è per me la prova della loro validità. “Il canto, una certezza nel bisogno cantando”, diceva Novalis.

M.G.: Osservando alcune sue opere vedo larghe campiture di colore percorso da linee di demarcazione che, drammaticamente, diventano mutanti, si moltiplicano, nel tentativo di uscire dal confine in cui sono costrette per incontrare e definire uno spazio e un tempo diversi. Come bisogna porsi davanti alla sua opera?

M.R.: Con assoluta libertà, senza andare alla ricerca pedissequa di ciò che io ho voluto rappresentare o raccontare. Il pittore con il colore, il pennello, le mani stesse o qualsiasi tecnica o tecnologia abbia a disposizione, non fa altro che prendere tanti ingredienti, amalgamarli, confezionare un’immagine che ha altri substrati, non fisici, e consegnarla al fruitore che avrà la facoltà di percepirla attraverso la propria sensibilità. Non è importante che io rappresenti l’immagine di un oggetto identificabile, come ho detto in altre occasioni. Non è l’oggetto in sé. È “l’altro” che bisogna evocare, attraverso l’oggetto. E per me solo attraverso l’astrazione si bypassa l’oggetto, o la sua descrizione, per farci arrivare all’essenza del dipinto. A nessuno deve interessare l’aneddotica delle mie opere, perché non è questa la sostanza. Il racconto non è efficace, mentre la struttura dell’immagine sì. L’immagine è folta, e quindi aperta a una pluralità di significati, come nei miti. I miti sono rivelazione.

M.G.: Ma nella fattispecie certe immagini si possono leggere come tali? Si possono vedere mani tese, per esempio nelle sue ultime opere, ad afferrare l’ignoto?

M.R.: Il titolo della mia ultima mostra era: “Mani, mine, misteri”, io stesso quindi dichiaravo che vi erano “mani”: solcavano la superficie con braccia lunghissime, braccia-viaggi, una superficie disseminata di pericolose mine, e queste mani per ogni dove, dentro e fuori, sì, cercavano… lungo superfici lattiginose, si cercavano, mani esseri, mani personaggio, protese, riverse, retroverse, e apparivano tra le faglie della superficie accenni di scritte lontane… Ahimé, mi sto confessando troppo… Mani… Ma siamo sicuri che siano proprio loro?

M.G.: Ho notato dei cambiamenti nelle sue scelte tecniche. Nelle opere risalenti agli anni Sessanta prediligeva il supporto cartaceo, quasi a sottolineare la fragilità della superficie delle cose. Poi negli anni Settanta è ritornato alla tela, ma trattandola con sole velature, fino a rivelarne la trama. Negli anni Ottanta è ritornato alla carta…

M.R.: Sì, parliamo di tecniche. Stiamo volando troppo. Un quadro si vede e si tocca. Non bisogna dimenticarlo. Lei ne sa qualcosa, dal momento che è impossibile restaurare i sogni. Io direi che tutto il mio percorso sia improntato alla leggerezza, anche in certi momenti più drammatici. La carta in questo senso mi ha aiutato molto, come pure mi ha molto soccorso in un altro dei miei attributi: l’immediatezza. Sulla carta (non è un segreto, lo sanno parecchi artisti) si può agire con una fluidità e un azzardo sconosciuti ad altri media, e questo è stato molto confacente al mio fare. La carta sopporta bene la varietà dei mezzi pittorici e io ho usato sulle superfici quasi sempre tecniche miste. Negli anni Settanta, tuttavia, avevo così rarefatto i miei apporti pittorici che, per contrappasso, sentii la necessità di agire direttamente su un supporto più rigido e sostenuto: la tela.

M.G.: Ora però vi sono più stesure, più densità…

M.R.: Dal 1993, l’anno in cui nascono i Misteri, sono andato coinvolgendo anche la superficie nella ricerca del sottostante. Il che è avvenuto tecnicamente con la stesura di più “foglie” penetrando le quali si può ricevere la suggestione di arrivare a un “dentro”, in questo caso il supporto più indicato era di nuovo la tela. Sia pure col problema, in questo caso, di rendere l’apporto pittorico leggero e permeabile. Ecco un caso in cui la tecnica deve essere sempre al servizio dell’espressività. “Lo stile – scriveva Proust – per lo scrittore come per il pittore, non è questione tecnica, bensì di visione.” […]

(in Arte in Italia 1968-2008. Dieci pittori, a cura di Marco Goldin, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2008)