È a Vittorio Fagone che si deve l’indicazione di lettura del lavoro di Raciti, a mio giudizio, più convincente: là dove il critico, presentando l’artista nell’occasione di una personale a Palermo, sottolineava come la sua opera, rifuggendo da “un dato contemplativo, di riflessione naturale”, rivelasse una diversa attenzione “al profondo”, ad una sorta di “biografia della coscienza”.
Doveva incaricarsi poi, di lì a poco, Raciti stesso di intervenire in prima persona per chiarire ulteriormente le ragioni del proprio impegno poetico e riusciva infatti, in quel suo intervento dettato in primo luogo dalla sincerità, a mettere a fuoco taluni concetti particolarmente illuminanti, in un passo soprattutto – il più aderente alla realtà dei dipinti – che metteva in campo un pensiero chiave al quale è debitrice anche l’interpretazione che questo mio contributo intende proporre. Scriveva Raciti che, alla conclusione del processo creativo, nell’attimo del suo compimento, i nuclei formativi dell’immagine si sarebbero trovati “altrove”, fuori del dipinto e che la tela, che ne avrebbe rimandato “gli echi”, si sarebbe accontentata di serbare dell’immagine “il puro fantasma”. E qui, per cercare di intuire le modalità di un tale processo e congiuntamente per chiarire il significato da attribuire a quel termine, “fantasma”, evocato dall’artista e così carico di spessore semantico, corre subito l’obbligo di ricordare come Raciti sia approdato alle esperienze astratte degli ultimi anni da una iniziale figurazione di matrice onirica e fantastica, attraverso passaggi graduali contrassegnati da altrettanti momenti di decantazione, depurazione e rarefazione dei segni pittorici che li andavano via via sciogliendo dai lacci figurativi. Questa progressiva rinuncia al supporto narrativo, in un percorso di estrema coerenza che ha sempre ubbidito alla necessità della ragione poetica senza cedimenti o concessioni alle mode, ha nel tempo sempre più sottratto alla superficie pittorica i momenti che azionavano la tabulazione fino a confinarli, per usare le parole dell’artista, “altrove”, in una regione esterna all’opera e fino a pervenire a registrarne sulla tela dei puri effetti. Vivaldi, che ha creduto di non dover rinunciare a leggere in termini di narrazione, anche se tutt’affatto astratta, le nuove proposte dell’artista, ha voluto vedere questi effetti come degli “incidenti”, dei “minimi incidenti” disseminati nello spazio della tela, così infatti con felice espressione li ha chiamati, offrendo lo spunto per un’ulteriore precisazione. Se infatti solo si sostituisce, nel definire gli effetti registrati nell’opera, la parola incidente con evento, ecco che la loro natura e la loro fenomenologia risulta più chiara.
La tela, alla luce di questa interpretazione, si dà a conoscere come un luogo di eventi operanti: eventi, perché risultati di un’azione che è situata al di là dell’opera e risultati che, per le forme che ricoprono, sono in tutto differenti dall’azione stessa. Si tratta di eventi, dunque, che pur generati entro i confini dell’esperienza plastica non trovano sul suo terreno la loro giustificazione perché non s’intendono senza il rimando a quell’azione originaria che li ha promossi; nei segni della tela essi infatti non rappresentano null’altro che un fantasma. Il fantasma-evento che si manifesta nelle opere di Raciti differisce pertanto profondamente dagli eventi attivi nelle tele di artisti come Vago o Olivieri, dove essi assumono una caratterizzazione tutta fisica con lo esprimere esclusivamente il problema dell’apparizione della luce-colore o della forma-colore; in Raciti invece l’evento rimanda continuamente alla esperienza psicologica, è il prodotto di pulsioni profonde ed ha il suo punto di origine nell’io dell’autore. Non bisogna infatti dimenticare che da sempre dietro ai tracciati, alle macchie di colore, alle esili grafie di Raciti si nasconde la lezione del Surrealismo e la sua teoria dell’automatismo psichico e neppure si deve scordare che attorno a quest’area della ricerca risultano gravitare quasi tutti gli artisti, da Licini a Gorky, che sono serviti da modello al pittore, ma soprattutto non bisogna trascurare i segni delle sue opere che sono i primi a rivelare una loro stimmate psicologica: in quell’incepparsi e attorcersi, in quel timido svolgersi e subito raggomitolarsi e in quella loro fragile incertezza, in quell’ansia insinuante che s’accompagna alla loro apparizione, infine per quella loro continua reticenza. Ma una volta accertata, per questi segni, la loro natura di fantasmi e una volta inteso che in quanto effetti essi debbono pur essere collegati a delle cause, a questa soglia popolata di lontane, indecifrabili risonanze si deve arrestare il passo dell’indagine, lì dove ci abbaglia la presenza impassibile dell’evento è costretto a spuntarsi il nostro desiderio di reperirne il senso perché, come avverte Deleuze, “l’evento è il senso stesso in quanto si distacca e si distingue dagli stati di cose che lo producono o in cui si effettua”.
È dunque nella presenza dell’evento, e solo attraverso essa, che l’opera parla dell’assenza generata dal distacco e dalla differenza ed è ai termini della presenza e dell’assenza che Raciti infatti intitola da diversi anni i suoi quadri; ad essi proprio dalla coesistenza dei due termini derivano l’emozionante forza evocativa, la pregnante ambiguità e infine la flagrante attualità.
(Presentazione, in catalogo della mostra personale, Galleria La Bussola, Torino, 1976)