Ci sono due elementi, immediatamente percepibili anche da chi incontra per la prima volta il lavoro di Mario Raciti che conferiscono una evidenza essenziale e irreversibile a questa singolare pittura: la dominanza, non la risolvenza, del bianco (di recente Marchiori ha dedicato un volumetto all’opera dell’artista intitolandolo “Il bianco di Raciti”) e una sorta di continua crescita fantastica ottenuta operando su segni minimi, estesi nel campo del quadro sino a un’ambigua configurazione d’immagine.
Se si affrontano più da vicino questi due caratteri diventa possibile individuare le “operazioni costruttive” che determinano il lavoro di Raciti. Il bianco, gessoso e filtrato in un impasto poroso, non interrotto ma modulato dalle brusche, minime incidenze di un colore che oppone alla continuità del bianco solo una trama o una filacciatura, un “timbro” vibrato senza enfasi, è luminosità profonda (proprio nel senso della Farbeniehere goethiana, “scaturigine del cuore”; d’altra parte l’artista in una sua dichiarazione del ’68 ha voluto precisare “Amo la luce sottile ed espansa, desiderio di apertura, allusione a spazi problematici, rifiuto della fisicità compiaciuta”).
Però il bianco è anche campo di scritture, di segni continui significanti anche nello spazio di un codice grafico, o prolungati verso una libera, aperta geometria. Il rimando alle grandi superfici bianche sulle quali, o meglio con le quali, hanno realizzato le loro “scritture” Twombly e Novelli è ovvio, e pertinente, soprattutto se si ricordano alcune opere del ’66-’67 (bisogna anche distinguere tra il verso di scrittura di Twombly, gestuale e automatico, e la scrittura-metafora, composita più che accumulata, di Novelli; così si deve dare ragione a Vivaldi quando scrive che il percorso di Raciti appare oggi opposto a quello di Novelli, almeno nel senso che Raciti va rifiutando in maniera sempre più netta una semanticità particolare o specificata).
Il bianco ha una sua simbolicità nota agli psicologi (non quella di una purezza indefinita, ma di una attesa allarmata, di un’ambigua incertezza di fronte agli oggetti, al possesso degli oggetti) già usata, in una chiave non solo formale, nel gioco delle sottili, ambigue trame, nelle curve tensioni del mondo liberty.
La modulazione cromatica che fa vivo il campo del quadro, abbiamo più sopra parlato di dominanza e non di risolvenza del bianco, ha una sua singolare incidenza e intriga la scrittura e il grafismo.
Raciti ha certo riflettuto su la più sottile esperienza linguistica compiuta dall’arte occidentale: la “formatività” di Klee e la maniera di raggiungere un’immagine emozionalmente, secondo una costruzione provocata di Arshile Gorky. L’automatismo della “scrittura” non ha infatti valore se non per aprire una scena, un equilibrio tra segni e mezzi che hanno una consistenza singolare ma che vivono una durata omogenea fatta acuta da movimenti e contromovimento, da apparizioni e costanze di particolari atteggiamenti, di dichiarate insistenze indicative di associazioni, di aperture e illuminazioni sollecitate più che viste.
Insistiamo su questo aspetto della scrittura nell’opera di Raciti perché, ci sembra, dimostra come il suo lavoro rifugga da un dato contemplativo, di riflessione naturale. Più attento, al profondo, forse a una biografia della coscienza.
L’iter compiuto dal pittore è in questo senso rivelatore. Nei primi suoi quadri, esposti a Venezia e a Milano nei primi anni Sessanta, uno spazio fantastico veniva sezionato da porte, soffitti, pareti, cieli, chiuse sigle o cifre grafiche con un ordinamento che ci è sempre parso più orientato nello spazio che nel tempo (un viaggio, dove è l’occhio costretto a muoversi, e non un racconto concluso). Successivamente questi emblemi, elementi ripetuti per distanziarne una possibile significazione, sono stati dispersi nella spazialità del quadro fatta concava da una tensione non esterna, di continuo diretta, e sollecitata, verso una più acuta salienza.
Il distacco da l’onirico, l’ambiguo o il fantastico per l’astrazione non è causale nel lavoro di Raciti.
L’astrazione è anche riflessione sopra la più profonda relazione oggettuale che lega l’artista, ogni uomo, al mondo sensibile.
Dentro una pallida, albicante apparenza la pittura di Raciti declina le variazioni di un essenziale registro cromatico come la più diretta e viva delle metafore.
Sfida una relazione immagine-oggetto sperimentando un’autonoma oggettività dell’immagine.
Oggi chiuso in uno spazio di ricerca non clamoroso, Raciti porta avanti un discorso non equivoco cercando di sperimentare la pittura come un medium ancora vitale, di individuarne i luoghi attivi, di azzardo massimo. Anche il bianco a questo punto diviene un’ipotesi.
Il bianco come il colore per eccellenza.
(Presentazione, in catalogo della mostra personale, Galleria Quattro Venti, Palermo, 1972)