Quando tra il 1971 e il 1972 come responsabile dei libri d’arte della casa editrice Feltrinelli mi venne data l’opportunità di visionare le carte di Umberto Boccioni, che con molta cura Zeno Birolli verificava e trascriveva per l’edizione completa degli “Scritti”, restai sorpreso dell’attenzione del protagonista del futurismo nelle arti visive verso la moderna scienza psicologica, documentata dai ritagli di giornale relativi a alcune conferenze seguite a Parigi nel periodo dell’esposizione futurista, e della meticolosa attenzione con la quale Marinetti aveva ordinato e conservato, quasi fossero preziose reliquie, molte di quelle carte. Altro motivo di sorpresa, una perentoria indicazione contenuta in un breve testo inedito: “un critico è un tagliacarte”. Il senso di quella affermazione, solo all’apparenza paradossale, mi è risultato chiaro andando avanti negli anni, e nei decenni, di militanza critica: come il tagliacarte apre e rende leggibili le pagine di un libro intonso, così il lavoro del critico deve saper tempestivamente interpretare e indicare l’originalità e validità di quei percorsi artistici che appaiono dichiarati sin dalle prime opere – ed è questo il caso di Mario Raciti – con marcata intensità entro i parametri di una coerente e produttiva poetica. Non presento mostre in gallerie private dalla metà degli anni Settanta avendo compiuto un’opzione, ancora attiva e irreversibile, verso gli spazi pubblici dell’arte.
Ho creduto di dover compiere un’eccezione nel caso di questa esposizione, autorizzando la pubblicazione di due testi critici coevi alle opere “storiche” di Mario Raciti ora qui raccolte, per dare testimonianza di un’attenzione e di un apprezzamento che non sono mai venuti meno negli anni.
È oggi indispensabile ricordare che tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta nel campo della ricerca artistica la pittura veniva sottoposta a un vero e proprio “interdetto”. La scelta della pittura come campo totale di sperimentazione e di comunicazione di una nuova immagine, non passivamente a specchio della realtà ma autonoma e “attiva”, non risulta certo facile. Raciti non ha avuto al proposito dubbi ne esitazioni.
Nella primavera del 1971 presentando a Milano, alla rotonda della Besana, una selezione dei nuovi pittori astratti – “lirici” e “puristi” secondo l’arguta distinzione di Cesare Vivaldi che avevano affollato l’estate precedente, alla Casa del Mantegna, a Mantova la mostra “Pittura 70. L’immagine attiva” tenevo a sottolineare cosa dovesse intendersi per immagine attiva, definizione che trasferiva al campo delle arti visive la fondamentale distinzione di Jung tra immaginazione attiva e immaginazione passiva adattandola al clima e alle tensioni poetiche di quelle nuove ricerche: “se noi leggiamo il quadro in una prospezione strutturale distinguendovi una topica e una dinamica, cioè collocazione spaziale e temporalità alla visione (tanto della visione-progetto dell’artista quanto della visione – percorso del (osservatore), noi possiamo riconoscere nell’unità dell’esperienza la differenziata articolazione dei ’segni’ posti a indicare la durata di un momento generativo dell’immagine, oltre che la costituzione e l’espansione di questa”.
A proposito del lavoro di Raciti, presente in quell’esposizione con Claudio Olivieri e Valentino Vago a rappresentare i nuovi orientamenti della ricerca astratta a Milano, potevo notare: “i percorsi simbolici di Raciti evitano ogni esterna banalità narrativa, ogni incidenza autobiografica pur nella loro emozionata continuità; esplorano però un campo del quadro dal positivo dell’emergenza di un’immagine al negativo del suo decadimento dispersivo, dello ’scatenamento’ dei singoli articoli, con costanza inquieta e creativa”. Raciti ha, nel corso dei decenni trascorsi dalla realizzazione di quelle suggestive e intense opere, più che allargato, approfondito i termini della sua originale e produttiva poetica. L’artista è sempre rimasto fedele a se stesso.
Sono convinto che i testi qui ripresi possono valere non solo a collocare il lavoro di Raciti nel contesto vivacemente dialettico degli anni Settanta ma anche a illuminale l’opera successiva nelle sue costanti ed evolutive determinazioni.
(Nota per Mario Raciti, in catalogo della mostra personale di opere degli anni Settanta, Galleria Morone, Milano, 2005)